giovedì 24 novembre 2011

Rossi (Pd) ammette: "Mi manca Berlusconi, ora dobbiamo trottare"

Il governatore della Toscana rimpiange il Cavaliere perché "con lui era facile: bastava dargli addosso". E rottama Veltroni e D'Alema: "Non costruiscono il partito.




Le dimissioni di Silvio Berlusconi hanno spiazzato chi negli ultimi mesi non ha fatto altro che ripetere, fino alla nausea, il solito ritornello "Berlusconi dimettiti".
Lo ammette persino il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi che, ospite di Un giorno da pecora su Radio Due ha detto: "Mi manca. Con lui era facile in fondo: bastava dargli addosso, e via". Con il nuovo governo invece la vita del politico di opposizione è difficile: "Ora bisogna trottare di più, tutti quanti", ha detto Rossi.
Eppure il Pd continua ad essere diviso tra le sue correnti perché, spiega Rossi, "Lo usano tutti, ma nessuno gli vuole bene". Il governatore si riferisce a "tutti quelli che lavorano poco per costruirlo, mentre un partito deve essere costruito", in particolare a Walter Veltroni - "uno che il Pd l’ha pure costruito ma dovrebbe capire che ora è arrivato il momento di farsi da parte. Aveva detto che sarebbe andato in Africa..." e Massimo D’Alema - "dovrebbe capire che un’epoca si è chiusa: probabilmente avrà dei ruoli internazionali, però basta...". Di Veltroni, in particolare, Rossi non condivide la concezione di partito liquido: "A me piace un partito organizzato e disciplinato". Molto meglio invece Dario Franceschini, "una persona che, invece, lavora per costruire il partito", mentre Matteo Renzi "è giovane e dovrà farsi, per ora sta governando bene Firenze, ma ci sono dei nodi che deve sciogliere".








Il governo Monti? Un golpe Per Sansonetti l'artefice è Napolitano l'antidemocratico

L'ex direttore di Liberazione spara ad alzo zero contro il capo dello Stato: "Non ha mai avuto un buon rapporto con la democrazia". E sul governo Monti: "Un colpo di stato moderno".



Con il governo Monti è avvenuto "un colpo di Stato moderno, è stata violata la legalità e sospesa la sovranità popolare". Il responsabile di tutto questo? Giorgio Napolitano.
Non usa mezzi termini il direttore de Gli Altri, Piero Sansonetti per commentare la situazione politica contingente.
E, in un'intervista su ItaliaOggi, spara ad alzo contro il capo dello Stato. "Napolitano, come gran parte del vecchio gruppo dirigente comunista non ha mai avuto un buon rapporto con la democrazia", dichiara Sansonetti, che poi continua nell'analisi storica del rapporto che il vecchio Pci (di cui faceva parte il presidente della Repubblica) aveva con la democrazia. "C'era l'idea della democrazia come cosa importante, ma subalterna alla ragiona assoluta che poteva essere di partiti o di stato. In questo caso alla ragione di Stato", si legge su ItaliaOggi.
Insomma, anche per Sansonetti, l'esecutivo Monti ha inaugurato una stagione priva di regole democratiche, in favore di quelle economiche. Ma, sostiene l'ex direttore di Liberazione, questa "è una tesi che rispetto, ma è una tesi totalitaria. Del resto io rispettavo anche il comunismo che era totalitario, poi il mio pensiero si è evoluto".
Infine, Sansonetti ne ha anche per il Partito democratico: "Vota con Berlusconi, è a favore di questo governo e quindi si è berlusconizzato".






domenica 20 novembre 2011

I nemici del Cavaliere, adesso non sanno con chi prendersela e contro chi fare le trasmissioni.

Senza un "nemico" da abbattere a sinistra scoppiano le risse. Bersani contro Letta, l’Unità contro Europa, Santoro contro Formigli: ognuno ha la sua "linea".







È come un fuocherello acceso da una scintilla e divampato in un incendio. La scintilla è stata l’addio di Silvio Berlusconi, la foresta in fiamme è la sinistra.Un collante l’ha tenuta assieme per anni: l’antiberlusconismo.
Ora che questa ragione di vita è venuta meno, cade la maschera che ha coperto le magagne dell’ex opposizione. Resta la realtà di sempre, fatta di lotte intestine.
Nel Partito democratico lo scontro è aperto. Dalla Velina rossa all’ala filo-Cgil, dall’ex ministro Damiano al responsabile economico Fassina è un susseguirsi di critiche, distinguo, prese di distanza dal pensiero unico democratico pro- Monti.Nemmeno l’ Unità sprizza entusiasmo, e il quotidiano riflette le posizioni del segretario Pier Luigi Bersani. Che ufficialmente è pancia a terra con il nuovo governo, ma in realtà freme perché la linea interna è dettata dall’ala riformista/centrista di Enrico Letta, quello che manda i pizzini al nuovo premier offrendosi come consulente per scegliere viceministri e sottosegretari.
Ma dietro a Damiano e Bersani scalpita l’intero gruppo che fa capo a Massimo D’Alema. Il motivo è chiaro: «Fare riforme con il Pdl non può diventare la nostra identità », scriveva Fassina sull’ Unità di ieri. L’organo del Pd ha dato ampio spazio alla crisi interna, a partire dalla prima pagina che ha ospitato due articoli molto critici con il nuovo corso politico: il vicedirettore Rinaldo Gianola se l’è presa con i «conflitti da regolare» all’interno del governo mentre l’economista Ronny Mazzocchi ha attaccato la «via danese» alla riforma del welfare, cioè la linea del senatore Pd Pietro Ichino e del nuovo governo sui tagli alle pensioni.
Contro l’ Unità si sono mosse le truppe di Europa , ex giornale della Margherita e ora portavoce dei «liberal» democratici. Il direttore Stefano Menichini ha sgridato i compagni: «Pd, devi crederci tu per primo». E il Riformista , diretto da quel vecchio amico di Giorgio Napolitano che è Emanuele Macaluso, fa da scudiero a Monti, «un “osso duro” che sa parlare agli italiani».
Insomma, i dissensi stanno uscendo dai corridoi. Messo da parte Berlusconi, a sinistra liberi tutti. Come dimostra la polemica tra Michele Santoro e Corrado Formigli, fino a sei mesi fa alleati e allineati a seminare mine televisive nel centrodestra dalla corazzata pubblica Raidue, oggi separati e nemici su emittenti in concorrenza. L’allievo ha attaccato il maestro: Santoro ha denunciato attentati ai ripetitori che trasmettono il suo Servizio pubblico , l’inviatodi Formigli ha scoperto che per i carabinieri non esiste nessun boicottaggio e accusato i «competitor» di cercare facile pubblicità, Santoro ha minacciato querele.
Non è finita. Sul Fatto il vicedirettore Marco Travaglio ha difeso Santoro, con il quale lavora da anni,ed è andato all’assalto di Piazza pulita , il programma di Formigli su La7. Ma la tv del gruppo Telecom è guidata dall’ex direttore di Rai3,Paolo Ruffini, uomo di sinistra, e uno dei suoi volti di punta è Luca Telese, inviato del Fatto stesso.
È dunque il momento del rompete le righe, di infrangere i tabù e abbattere i totem rossi. «Siamo tutti più liberi», scriveva l’altro giorno Riccardo Chiaberge sempre sul Fatto . Liberi di attaccare la sinistra da sinistra «senza che qualcuno ci possa tacciare di berlusconismo».

martedì 15 novembre 2011

Anche la Merkel non se la passa bene. L'idea per contrastare la crisa economica, è quella di abbandonare l'Euro.





«Se crolla l’euro, crolla l’Europa». Frau Angela Merkel ha scelto Lipsia, nella “sua” Germania dell’Est, per esibire la sua abilità retorica, da degna  figlia del pastore luterano già gradito alle autorità di Berlino Est per la sua capacità di conciliare sacre scritture e verbo marxiano. Da una parte,  la Merkel ha speso parole impegnative in  difesa dell’Unione Europea. «Abbiamo bisogno dell’Europa – ha sillabato davanti ai delegati, tra cui una combattiva minoranza euroscettica – perché  è il fondamento del nostro benessere. Il 60% delle nostre esportazioni finisce nell’Ue  da cui dipendono nove milioni di posti di lavoro tedeschi. Se non va bene per l’Europa a lungo andare non va bene per la Germania». 

Ma il rinnovato impegno europeo della Cdu a suon di chiacchiere ha fatto da copertura  ad una bordata da ko nei confronti dell’euro che potrebbe far da anticamera ad un de profundis per la moneta unica:  il Congresso della Cdu, infatti, ha votato una mozione che prevede la possibilità per uno Stato di uscire «volontariamente» dall’euro, senza per questo essere escluso dall’Ue. Insomma,  si apre una porta per creare una comunità di serie A (Germania, Austria, Olanda, Finlandia, forse la Francia) raccolta attorno all’euro, e una periferia di contorno, aperta alle esportazioni del made in Germany ma, finalmente, non più in grado di infettare il nuovo euro, formato Deutsche Mark.  Certo, si prevede un meccanismo volontario. Termine di moda, se si pensa allo sconto «volontario» delle banche al debito greco che per ora ha portato solo guai ma nessuna soluzione. Così come promette di fare questa nuova trovata retorica, all’insegna della doppia verità che ha ben poco di luterano.

La Merkel si riempie di belle parole sull’euro, ma nei fatti fa solo la predica agli altri.   Al Regno Unito, per esempio, colpevole di porre il veto su regole più stringenti per  la finanza. E se Londra non cambierà idea, l’Europa a 17  dovrà marciare da sola. Anche se    non si riesce a capire come farà   a colpire  transazioni che, di norma, si svolgono a Londra o a Zurigo. Spesso su ordini in arrivo dalla Deutsche Bank o dall’Allianz da Francoforte. Ma ce n’è anche per i soliti  incorreggibili   pasticcioni del  Sud Europa: «Le regole del patto di stabilità e crescita – dice la Merkel – sono state infrante sessanta volte, e non è successo nulla. Quante  volte dobbiamo ancora attendere perché succeda qualcosa? Vogliamo meccanismi sanzionatori automatici nei confronti di chi viola i patti». Parole sacrosante, per carità. Ma, una volta finita la predica, che resta?  La  Merkel ha bocciato, al G20 di Cannes, l’ipotesi di mettere l’oro della Bundesbank a disposizione di un veicolo  finanziario in  grado di respingere gli assalti della speculazione, così come ha fatto a suo tempo l’America nel dopo Lehman.  Jens Weidmann, l’alfiere della Bundesbank alla Bce, ha ripetuto    ieri che la Bce non deve diventare il prestatore  di ultima istanza,   come   tutte le altre banche centrali del pianeta. L’impegno tedesco si limiterà a versare la propria quota nel fondo salvastati la cui dotazione, per bocca degli stessi tedeschi, è  insufficiente a sostenere un attacco nei confronti dei Btp, piuttosto che dei Bonos spagnoli o degli Oat francesi perché, come   è evidente, non esiste il singolo Paese cattivo, bensì un contagio che ha colpito l’intero edificio. Inutile pensare di salvarsi da soli.

E così la locomotiva tedesca procede, senza curarsi nei fatti degli altri vagoni del convoglio. Anche se, a leggere i dati del superindice, la Germania perde colpi ancor di più della scassata Italia: -1,3% contro l’1%. Ma, con l’eccezione di Usa e Giappone (in ripresa dopo lo shock dello tsunami) è un po’ tutta l’economia che rischia di entrare in recessione, a causa della crisi dell’area euro.  Per l’Italia la conferma dovrebbe arrivare oggi , con i dati sul terzo trimestre del Pil.  Ma anche la Germania dovrebbe aver registrato una brusca frenata: solo lo 0,5% di crescita, nonostante che a settembre le vendite di Bmw e Volkswagen in Cina e Sud America siano ancora andate a gonfie vele. La grande Germania, insomma, perde colpi. E i suoi politici, ahimè, non possono più scaricare la responsabilità su  Berlusconi o qualche greco un po’ imbroglione piuttosto che su qualche banchiere inglese dalla vocazione di locusta. Cara Frau Merkel, si decida.  E, tra l’altro, smetta di passeggiare su e giù per Cannes, Deauvoille o Potsdam con il degno compare Nicolas Sarkozy:  sta a vedere che l’idea dell’uscita «volontaria» dall’euro l’avete partorita voi due, futuri trombati alle elezioni che cercate un salvagente per riemergere prima della sonora bocciatura.   

Sarkò rideva dell'Italia, adesso anche la Francia è sotto attacco.

La borsa di Parigi precipita, lo spread dei titoli francesi e tedeschi schizzano al record storico. Il Presidente che non ride più è preoccupato per il voto che incalza.



Tempesta sui mercati italiani, ma comincia a delinearsi la sagoma della prossima vittima designata della finanza internazionale: la Francia. Mentre schizza lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi, a Parigi si comincia a respirare l'aria acre della speculazione. Nicolas Sarkozy ha fatto di tutto, compreso offrirsi come improbabile mediatore nell'arcobaleno politico italiano, pur di ottenere l'etichetta di muro portante - insieme alla locomotiva tedesca - di un'Unione europea che traballa come mai le era successo. Ma le parole e le boutade di Sarkò non bastano. Quel che conta sono le cifre, e le cifre dicono che il debito pubblico transalpino è quasi pari al nostro e che la crescita del Paese è stagnante.

Giù la Borsa - I dati macroeconomici ci mettono poco a far sentire le loro ripercussioni sulla Borsa di Parigi e sui titoli di Stato francesi. Così l'indice Cac-40 accelerava al ribasso sia per i timori di un limitato sostegno politico in Italia al governo guidato da Mario Monti, sia per il fatto che le banche francesi sono le più esposte verso la Grecia, prima candidata al crac, eventualità sempre più concreta nei giorni più caldi per la moneta unica. Perdevano così terreno i titoli bancari, con Bnp Paribas che lasciava sei punti percentuali e SocGèn che, pur avendoci ormai abituati alle montagne russe, perdeva un altro 4,2 per cento. Infine il terzo colosso, Credit Agricol, che scivolava di 3,7 punti percentuali.

Sù lo spread - L'altro segnale d'allarme, che noi in Italia nostro malgrado ben conosciamo e temiamo, è quello dello spread, il differenziale di rendimento. La pietra di paragone resta sempre l'inossidabile Bund tedesco: i titoli francesi, rispetto alle cedole di Berlino, hanno raggiunto il record storico di uno spread a 182 punti base, cifre lontane rispetto a quelle toccate dai nostri Btp ma che indicano come la galoppata (in negativo) delle Obligations Assimilables du Trésor (gli Oat) pare essere inesorabilmente iniziata. Malissimo anche il differenziale dei titoli del Belgio, schizzato a quota 302 punti base. L'attacco all'Eurozona allarga i suoi orizzonti, e il futuro della moneta unica non è mai stato così precario.

lunedì 14 novembre 2011

La tragicommedia degli oppositori di Berlusconi: senza il Cavaliere rischiamo di restare senza lavoro. Santoro, Travaglio, Ruotolo, Padellaro, ecc... sono "preoccupatissimi".






Redazione del Fatto. I giornalisti festeggiano brindando ininterrottamente da tre giorni, quando arriva il direttore stanno sparando colpi di spingarda contro un cartonato di Berlusconi attaccato al muro. Antonio Padellaro si presenta col volto scavato dalla sofferenza. Entrando, sposta col piede il corpo di un giornalista che giace a terra svenuto.

Peter Gomez
: Ciao direttore! Toh, magnati un pasticcino.
Padellaro: Ma che cazzo festeggiate, siete cretini?
Gomez: È caduto Berlusconi…
Padellaro: Appunto, che cazzo ridete?  Mi dici come lo riempiamo il giornale? Trenta pagine al dì senza Berlusconi le fai tu, adesso!
Gomez: Direttore,  ma avevamo detto che sparavamo anche contro la sinistra… C’è  D’Alema... Il titolo  è già pronto: ho scritto «indagato» e ho lasciato gli spazi vuoti. Vedrai che entro sera un indagato del Pd salta fuori...
Padellaro: Non capite proprio niente allora! Non ti rendi conto che poi quelli del Pd li lasciano andare, che insabbiano tutto!
Gomez: Ci sarà  qualche intercettazione, magari di Fassino...
Padellaro: Stai zitto per l’amor del cielo, lascia stare Fassino che poi ci fanno causa... quelle robe lì mica si possono mettere. Qua finisce che chiudiamo,  io ho pure ipotecato la villa nel Chianti per ’sto giornale, dovevo stare zitto, dovevo, me ne stavo col Pd e un posto me lo davano... Adesso mi tocca vendere la macchina. Vabbé dai, chiamatemi Travaglio.
Travaglio: Pronto, Antonio?
Padellaro: Marco qua è un disastro, senza Berlusconi non sappiamo che fare, chiudiamo...
Travaglio: E a me cosa me ne frega? Io c’ho la tivù, i libri...
Padellaro:   Sei il vicedirettore!
Travaglio: Scusa Antonio, ma si era detto che era per finta no? Cioè,  io venivo, mandavo via quelli del Misfatto, assumevo Disegni, litigavo con  Telese per vedere se si dimetteva così risparmiavamo... E tanti saluti.
Padellaro: Ma  cosa dici! Sei impazzito pure tu? Qua devi fare un pezzo, una satira, un insulto...
Travaglio: Mica posso attaccare Monti scusa... Forse Bersani...
Padellaro: Lo sai che non gliene frega niente a nessuno di Bersani.
Travaglio: Fini allora, c’è sempre quella storia di Montecarlo...
Padellaro: Ma sei cretino? Mica siamo la macchina del fango!
Travaglio: Scusa, però io te l’ho sempre detto che ero di destra, no?  Cioè, capisci, io qua mi devo un attimo riposizionare…
Padellaro: Traditore! Giuda!
Travaglio: Dai  e poi si era detto che  io i soldi della  quota nella società li mettevo a rate, con calma... Ciao, eh,  ci sentiamo.
Padellaro: Ma guarda te questo mannaggia... Chiamate Telese!
 Telese (sonnecchiante): Eh.
Padellaro: Fai  un pezzo! Ora! Non abbiamo niente! Chiudiamo!
Telese: Ah, ma non abbiamo già chiuso? Io pensavo che domenica era l’ultimo numero, c’erano anche  le copertine vecchie... Abbiamo finito no? È stato bello, tanti saluti, adesso si va al governo.
Padellaro: Traditore! Giuda!
Telese: Scusa Antonio, eh,  c’ho Porro sul cellulare...  Sì, Nicola, ciao! Sì, adesso arrivo... Sì, no, sai al Fatto è finita, forse pare che vado al Corriere... Mo’ vediamo…

Redazione di «Repubblica», festeggiamenti alcolici in corso.
Ezio Mauro: Giannini, ma che diavolo fai! Molla il panettone, vestiti, che dobbiamo fare la riunione in diretta! È pronto il dossier?
Massimo Giannini: Sì, abbiamo già duecento pezzi, possiamo dare la colpa a Berlusconi di tutti i disastri per i prossimi trent’anni... Ho  pronte otto interviste a D’Alema, tutte uguali, cambia solo la foto. Veltroni ha già mandato cinquanta interventi cofirmati con Pisanu, Scajola, Fini, Ferrara, persino uno con Franco Freda.
Mauro: Eh bene, che qua il materiale scarseggia… Ma un po’ di figa ce l’abbiamo?
Giannini: Ma come la figa, direttore... Sai che a sinistra la figa, cioè, non era nel programma, io non sapevo…
Mauro: Ma allora sei pirla... Lo sai che se no non vendiamo... Trova delle foto, che ne so, la Bindi nuda, la Merkel in topless...
Giannini: Dio mio, direttore, ma poi ci vietano ai minori…
Mauro: E sarebbe anche ora...
(Squilla il telefono).
Eugenio Scalfari: Pronto, Ezio, è Dio che ti parla.
Mauro: Io chi?
Scalfari: Non io, Dio, Ezio, Dio, sono Eugenio! Ho pronto un pezzo! 30mila battute! Su Montaigne!
Mauro: Dio mio...
Scalfari: Dimmi.
Mauro: No, mi disperavo...
Scalfari: Ah, la Spinelli ha mandato 50mila battute su Kant! Con intervista a Umberto Eco, che è sveglio da sei giorni per rileggerlo.
Mauro: Dio mio...
Scalfari: Dimmi.
Mauro: E porc... Io mi dimetto.
Redazione di «Servizio Pubblico». Facce disperate. A Sandro Ruotolo sono caduti i baffi.
Michele Santoro: Sandro, chi ci ha perseguitato oggi?
Ruotolo: Nessuno Michele.
Santoro: Come?! Noi siamo una risorsa, una perla! Che dice Travaglio?
Ruotolo: Dice che lui è di destra, che non viene più.
Santoro:  Maledetto, traditore! E io adesso di che mi lamento?
Ruotolo: Non lo so Michele... Potresti lamentarti della dieta Dukan che non funziona...
Santoro: Sì che funziona, sono solo un po’ gonfio, è lo stress. Vabbé senti, chiama Sandro Parenzo, digli di telefonare agli amici suoi, che si faccia rubare un altro paio di antenne, una macchina, il cavolo che gli pare... Almeno si tira avanti una settimana.
Ruotolo: Sì, ma poi?
Santoro: Poi chiediamo l’elemosina con un appello sul sito. Tanto siamo già  attrezzati.
Casa Travaglio, sera.
Travaglio: Pronto, Maurizio?
Maurizio Belpietro: Marco?
Travaglio: Ciao, senti, volevo dirti... Sai quando dicevo che eravate servi, quando ti insultavo ad Annozero... Scherzavo, lo sai no?
Belpietro: Beh, insomma...
Travaglio: Sai, io sono di destra... Ora devo cambiare un po’ genere… I libri mi han già detto che non vendono più, c’ho una famiglia... Magari, lì a Libero, una sedia vicino a Facci...
Belpietro: Mah, adesso vediamo, eh... Ciao Marco, ciao.
Travaglio fa un altro numero.
Travaglio: Pronto Giuliano?
Giuliano Ferrara: Marco?
Travaglio: Sì, ciao, no, sai quando dicevo che il Foglio fa schifo e non vende nulla... Scherzavo eh...

martedì 1 novembre 2011

Pm sbugiardati: fuori dal carcere Bisignani e Papa

 
                                          
 
RomaLuigi Bisignani torna libero, il deputato Pdl Alfonso Papa esce dal carcere di Poggioreale dopo oltre cento giorni di reclusione. Non sono stati definiti così pericolosi tanto da essere privati completamente della libertà in attesa di giudizio l'uomo di affari e il politico coinvolti nell'inchiesta P4 condotta dai pm della procura di Napoli Francesco Curcio e Henry John Woodcock. Il primo può da ieri lasciare la sua abitazione romana dove si trovava agli arresti su decisione del gip di Napoli Luigi Giordano. Anche la procura aveva espresso parere favorevole dopo che Bisignani aveva patteggiato per tutti i reati di cui è accusato (favoreggiamento e violazione del segreto di ufficio) ma i pm chiedevano l'obbligo di firma. Un diverso gip si pronuncerà nei prossimi giorni sul patteggiamento.
Papa è da ieri ai domiciliari nella casa della famiglia a Napoli. I pm erano contrari, ma in una motivazione di sei pagine i giudici della prima sezione del tribunale partenopeo hanno scritto che non c'è motivo per cui il deputato del Pdl - consegnato alla giustizia su via libera della Camera - rimanga a Poggioreale perch´ non esiste nessun «concreto pericolo di inquinamento probatorio». Tra le ragioni ci sono anche le «condizioni di salute»: Papa soffrirebbe di «disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso», di grado «medio grave», con «elevata possibilità di commissione di atti autolesionistici». Il suo comportamento da indagato e il fatto che non abbia precedenti confermano che la misura «proporzionata» in questo momento non sia comunque il carcere. Il gip di Roma, procura dove Papa è accusato di concussione, ha confermato questa tesi.
La decisione dei giudici segna una sconfitta per la procura di Napoli. I pm sostenevano infatti che in carcere Papa avesse tentato di inquinare le prove. Avevano anzi depositato nuovi atti tesi a dimostrare che il deputato Pdl avrebbe coinvolto un compagno di reclusione e un carabiniere, che gli avrebbe scattato alcune foto, per avviare una campagna stampa sulle sue condizioni. Ma gli atti della procura sono stati ritenuti non convincenti dai giudici, in quanto «non appaiono significativi» i comportamenti denunciati. In generale si tratterebbe di «mere quanto improduttive iniziative volte a mantenere vivo su di s´ l'interesse dell'opinione pubblica» in vista del processo, non di inquinamento delle prove. Non esiste poi «alcun pericolo di fuga». I domiciliari sono concessi anche per il «comportamento tenuto» dall'imputato «tra l'adozione nei suoi confronti della misura cautelare» e l'autorizzazione a procedere, il 20 luglio, quando «l'imputato risulta essersi immediatamente costituito pressa la casa circondariale di Napoli». Papa è stato accolto nel quartiere Vomero dal padre Giovanni e dalla madre Rosita. Ha salutato i giornalisti dalla finestra chiusa. «È molto provato e non può rilasciare dichiarazioni», hanno spiegato i genitori.

Ecco tutti quei compagni in toga di Ingroia che continuano a fare politica (contro il Cav)

Il pm Antonio Ingroia domenica scorsa al congresso dei Comunisti italiani si è vantato di essere un partigiano. Ospiti della piazza, amici dei giustizialisti e fedeli all'idea del pm dinamico, che fu teorizzato dagli eroi di Mani pulite: ecco i compagni in toga

                                                      
  
Il re è nudo, esclamò il bambino della fiaba di Andersen, e lo ripetono oggi gli italiani dopo che il pm Antonio Ingroia ha rivelato a un’assemblea di partito - quello comunista di Diliberto - di non essere imparziale. Con la marcia indietro di ieri non arretra di nulla: «Il magistrato applicando la legge la interpreta ed è mosso da valori costituzionali che non lo rendono del tutto neutrale». Quindi, appreso che il procuratore aggiunto di Palermo non è imparziale, ora sappiamo che non è nemmeno neutrale.
Disobbedire alle leggi? Applicarle tirandole dalla propria parte? Gettando la maschera, Ingroia si è insediato come capofila della schiera dei magistrati politicizzati. Che non sono quelli che hanno abbandonato la toga per sedersi in Parlamento: ce n’è di destra e di sinistra, dal ministro Nitto Palma a Gerardo D’Ambrosio fino a Di Pietro, Anna Finocchiaro, Felice Casson e Gianrico Carofiglio. No: Ingroia e i suoi fratelli continuano ad amministrare la giustizia rivendicando il diritto alle scelte di parte.
Partecipano a manifestazioni politiche, per esempio. Ingroia aveva già aderito a iniziative pubbliche contro Berlusconi e, con il collega palermitano Roberto Scarpinato, si è presentato all’assemblea di fondazione del Fatto quotidiano, tenendo a battesimo la neonata gazzetta delle toghe - soprattutto rosse. Oppure invitano apertamente a disattendere il dettato legislativo. Come fece il magistrato napoletano Nicola Quatrano, presidente di un collegio del Riesame: prendendo la parola a un’assemblea della Cgil, disse che l’unico modo per opporsi alla nuova legge sull’immigrazione (che prevedeva il reato di clandestinità) era la disobbedienza civile.
È lo stesso partigiano Quatrano che nel 2001 (era gip del tribunale partenopeo) partecipò alla manifestazione dei no-global contro il G8 e in seguito si giustificò dicendo che passava di lì per caso. L’allora guardasigilli Castelli promosse un’azione disciplinare contro di lui nel 2003. L’ispezione coinvolse anche una collega di Quatrano, Isabella Iaselli, ritenuta pure lei vicina alle posizioni dei movimenti antagonisti: fu il gip Iaselli a disporre i provvedimenti cautelari per i poliziotti accusati di presunte violenze verso gli anarchici chiusi nella caserma Raniero.
I fatti di Genova avevano sollevato il velo anche sulle convinzioni di Libero Mancuso, il pm che aveva indagato sulla strage alla stazione di Bologna e in seguito sarebbe diventato assessore nella giunta Cofferati e candidato vendoliano alle primarie della sinistra per il sindaco di Napoli. «È più difficile indagare su Genova che sulla strage di Bologna - disse l’imparziale magistrato -. Ogni volta che pezzi dello Stato debbono rispondere di episodi così rilevanti penalmente, scattano protezioni e coperture».
Al Forum no-global di Porto Alegre aveva partecipato il giudice Nicoletta Gandus, che avrebbe condannato Silvio Berlusconi in primo grado nel processo Mills. Ha firmato numerosi appelli, assieme ad altri aderenti a Magistratura democratica, contro varie leggi approvate tra il 2001 e il 2006 chiedendone la cancellazione perché hanno «devastato il nostro sistema giustizia». La depenalizzazione del falso in bilancio sarebbe figlia di una «cultura dell’illegalità», mentre quella della legittima difesa è una «riforma barbara» e la legge Pecorella sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento «altera un principio costituzionale».
D’altra parte, nella sentenza che nega la ricusazione del giudice Gandus chiesta da Berlusconi proprio per la partigianeria del magistrato, la quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano riconosce che Gandus aveva pesantemente criticato in pubblico e «senza mezzi termini» le scelte del governo, ma «dall’inizio del processo non ha più dichiarato alcunché» e quindi - secondo i colleghi giudici - ella avrebbe accantonato «l’asserita avversione ideologica od anche “l’astio” verso un soggetto politico probabilmente a lei inviso».
Ma in tema di mancata neutralità togata non bisogna dimenticare un fatto di oltre vent’anni fa, quando il Cavaliere non era ancora sceso in politica. Un documento del 12 marzo 1988 che raccoglie gli scritti della sezione milanese di Magistratura democratica (tra le firme compaiono quelle della Gandus, di Gherardo Colombo e dei futuri membri del pool Mani pulite) teorizza la nascita del «pm dinamico» che si deve occupare meno di micro-criminalità, devianze sociali e malavita urbana per dedicarsi invece alla «contrapposizione con altri poteri, palesi e occulti, dello Stato e della società». Cioè colletti bianchi e politici. Con tanti saluti all’obbligatorietà dell’azione penale. E un caldo benvenuto al pm partigiano.

Lezione di stile a Fini dal compagno Fausto: "Rispetti le istituzioni"

 

Bertinotti su La7 ricorda la sua presidenza della Camera: "Io? Non andavo neanche ai congressi di Rifondazione..."

 
                                                 
 
È stato il papà a metterglielo in testa. «Per non togliere mai il cappello davanti ai padroni devi imparare a parlare meglio di loro». Con la sua erre blesa, Bertinotti Fausto, era - diciamolo con simpatia - portato per natura a scimmiottare la cadenza (se non proprio l’eloquio) dei grandi borghesi. E ora la sua dialettica, costruita su un lessico altamente raffinato e puntuale, è capace di ricevere complimenti bipartisan. Tanto da Nicola Porro quanto da Luca Telese, conduttori di In onda (su La 7) dove domenica si è registrata l’ennesima bocciatura del cosiddetto «Fini style». Come pensionato della politica, Bertinotti si è riscoperto protagonista dei salotti chic e sono in tanti a indicarlo, con una punta di maliziosa ironia, magister elegantiarum. A chi meglio di lui, quindi, in qualità di maestro di bon ton, di comunista non pentito e di ex presidente della Camera dei deputati, chiedere un parere illuminante sulla condotta del «collega» Gianfranco Fini? Nicola Porro lo incalza: «Come presidente della Camera avrebbe partecipato a un talk show?» E Bertinotti risponde ammiccando: «Lei lo sa. Sono un conservatore. Ho un religioso rispetto delle istituzioni». Come a dire: lo stile non è acqua. Il senso dello Stato non si improvvisa. E, detto da un internazionalista convinto, fa un certo effetto. Lo stesso Fini sul Messaggero di ieri ammetteva in parte le sue colpe: «Non credo, però - puntualizzava nell’intervista rilasciata a Barbara Jerkov - che il ruolo politico che fuori dall’aula ha il presidente della Camera sia la più grave delle anomalie in questo momento».
L’attuale «magister» di Montecitorio è nel mirino della coppia Porro-Telese. Vogliono sapere. Vogliono capire. Si può andare a Ballarò e parlar male degli avversari? Come è accaduto il 24 ottobre. Si può andare a Piazza pulita (puntata del 6 ottobre)? E da Fabio Fazio a commentare l’involuzione del Pdl (16 gennaio)? «Io non sono andato nemmeno a parlare al congresso di Rifondazione comunista, se è per questo» taglia corto Bertinotti. È una questione di opportunità. E di buon gusto. Ma non solo. È anche la naturale scelta di un conservatore. Parliamo di Bertinotti, mica di Fini. È così che lo stesso ex sindacalista e parlamentare si definisce. A dispetto dei lavoratori e rivoluzionari incalliti che l’hanno votato come rappresentante sindacale e parlamentare. «Ma io - replica sereno - sono un conservatore perché voglio difendere e mantenere in vita le conquiste ottenute dai nostri padri». Alla faccia di Renzi e dei rottamatori à la page. «E poi - con l’eleganza del citazionista disinvolto - lo stesso Berlinguer era solito dire che i comunisti sono conservatori e rivoluzionari. Mai riformisti».
Per quanti sforzi stia compiendo Fini per essere apprezzato a sinistra (sì alla patrimoniale, sì alle coppie gay, sì all’articolo 18, no alla legge Bossi-Fini, sì all’internazionalizzazione dei diritti, sì alla riforma della legge elettorale) sembra sia ancora lungo il percorso da fare per il presidente della Camera per essere accettato dal suo predecessore, sul piano del comportamento prima ancora che su quello politico. Con perfida malizia la coppia Porro-Telese fa ascoltare a Bertinotti un’intervento di Pietrangelo Buttafuoco sul tradimento e sul trasformismo come cifre della peggiore italianità. «L’Italia democratica è nata dal tradimento» tuona il giornalista siciliano. Bertinotti si fa scuro in volto. Lui pensa a Gobetti, a Gramsci. Al loro sacrificio. I milioni di elettori del Pdl pensano invece a Fini (e non come vittima).

Casini dà un calcio alla sinistra: "Un’altra lettera all’Ue? Inutile".Il leader centrista gela tutti: "Per noi parla il governo. Il resto è confusione"

Sulla  controlettera all'Unione europea per rassicurare Bruxelles che Di Pietro ha annunciato ieri in un’intervista alla Stampa non ci sarà la firma di Casini. Il leader dell’Udc si è sfilato ieri: "Per noi parlano i governi in carica ed ogni ulteriore iniziativa è destinata ad accrescere la confusione in un momento già molto delicato per la nostra nazione". Una confezione elegante che nasconde la rabbia di Casini per essere stato tirato per la giacchetta dall’ex pm
                                      
                                                   
  
Antonio chiama, Pier Ferdinando non risponde. Sulla controlettera all’Unione europea per rassicurare Bruxelles che Di Pietro ha annunciato ieri in un’intervista alla Stampa non ci sarà la firma di Casini. Il leader dell’Udc si è sfilato ieri: «Per quanto ci riguarda - scrive sul suo sito - non c’è nessuna controlettera da inviare a Bruxelles da parte delle opposizioni. Per noi parlano i governi in carica ed ogni ulteriore iniziativa è destinata ad accrescere la confusione in un momento già molto delicato per la nostra nazione». Una confezione elegante che nasconde la rabbia di Casini per essere stato tirato per la giacchetta dall’ex magistrato in quello che con il passare delle ore assomiglia sempre di più a un bidone. Dalle parole di Di Pietro sembrava infatti che il sì di Casini alla fantomatica controlettera-ribaltone delle opposizioni (Idv, Pd e Sel) fosse solo una formalità: «Va coinvolto anche il Terzo Polo. D’altra parte vedo che Casini è disponibile anche lui». E invece no.
Peccato, in fondo. Qualcuno si era già immaginato Di Pietro e Casini con calamaio e carta seduti a un tavolino come Totò e Peppino, affannati tra virgole, punti e virgole e «parenti» da aprire e chiudere a scrivere la missiva da recapitare a Bruxelles con le misure magiche per far terminare la «morìa delle vacche» in Italia. Resterà solo un sogno da cinefili. Peccato, appunto.
Troppo astuto Casini per farsi coinvolgere in un progetto velleitario e fumoso, di nessuna valenza istituzionale, e anche piuttosto avventato, dal momento che sulla questione nemmeno gli alleati «patentati» dell’ex magistrato, nemmeno Vendola, sembrano seguirlo. Troppo astuto per svendere la possibilità di assumere prima o poi il ruolo del salvatore del governo solo per partecipare a un «pasticcio» postale che le stesse parole di Di Pietro svalutano al rango di zingarata tra amici con il semplice uso dell’espressione «buttare giù», più adatta a una lista della spesa che a un documento destinato ad austeri euroburocrati.
Così Casini preferisce stare di vedetta e tenersi in mano tutte le sue carte. I sondaggi danno la sua credibilità in crescita senza bisogno di partecipare a scampagnate con la sinistra estrema e forcaiola. La sua critica alla lettera all’Ue dell’esecutivo l’ha già obliterata, parlando di «ennesima promessa elettorale di Berlusconi» e di documento «insufficiente». «Noi non siamo disponibili a pasticci - ha detto giorni fa in un’intervista quasi profetica al Sole24Ore - metteremo la nostra forza politica per riunire il Paese. Servono scelte importanti, impopolari che si possono realizzare solo se c’è un’intesa cordiale tra contrapposti, altrimenti non si faranno mai perché nessuno vuole rischiare di perdere le elezioni». Parole in perfetto stile democristiano destinate a lasciare socchiuse tutte le porte.
Ma non è solo l’Udc a lasciare in bianco la sua casella sulla lettera a Bruxelles delle opposizioni. L’uscita di Di Pietro, come una torta farcita di crema avariata, ha scatenato parecchi mal di pancia all’interno del primo partito del centrosinistra, il Pd. I democratici si sono messi a esaminare i perché e i percome della controlettera e non sembrano raccapezzarsi. «Ma in questa lettera, poi, che cosa ci mettiamo?», è la domanda più sillabata dalle parti dell’ex Bottegone. Naturalmente tutti d’accordo sulle critiche a Berlusconi, da qualche lustro unico collante delle opposizioni. Se Di Pietro dice: «Se qualcuno dice che il programma di Berlusconi è una chimera, io aggiungo: “per fortuna”», tutti si accodano scodinzolanti. Se però Di Pietro assicura: «Garantiremo all’Europa i saldi, ma il modo di trovare i soldi sarà assolutamente differente; nessuna macelleria sociale», l’affare si ingrossa. Perché c’è il serio rischio che, per parafrasare un celebre film degli anni Ottanta, sotto il proclama niente. Insomma, per Bersani e soci si tratterebbe dell’ennesima furbata di Di Pietro volta ad accreditarsi come vero antiberlusconiano. Ma i postini di Bruxelles probabilmente possono dormire sonni tranquilli.